Catapultarsi da Milano a Parigi è un
po' come assistere a una partita a dadi tra il sogno e la realtà.
Scendendo da un treno notturno questa sensazione sembra più reale
che mai. Ti addormenti con impressi nella tua mente i ritmi e le
immagini di una città che, in fondo, ti è familiare; quando ti
svegli, invece, ciò che vedi è qualcosa di insolito. La lingua
diversa non è l'unico segno distintivo di un posto “straniero”.
L'architettura delle case, la gestualità delle persone, sono tutte
cose che ti spiegano che lo scenario che ti circonda è cambiato.
Persino l'aria che respiri sembra abbia un altro peso, un altro
aroma. Non è così scontato pensare che oggi, come ogni altro
giorno, ti sei svegliato. Non è follia credere che ciò che vedi
intorno a te sia un sogno iniziato dentro un vagone-letto, e non
ancora svanito. Il dilemma sogno/realtà non accenna a risolversi,
mentre comincio ad avventurarmi nella grande “Ville Lumière”,
salendo e scendendo dalla sua superficie e dai convogli della
ragnatela del Métro. Esistono almeno due città diverse dentro
Parigi: quella di superficie, dove vengono scattate le foto che
rappresentano la sua immagine elegante, da mostrare al mondo intero,
il quale, dopo averle attentamente esaminate, le rimanderà la sua
ammirazione sotto forma di incessanti flotte di turisti che si
impossesseranno di quella mirabile superficie. Poi esiste la città
sotto la superficie, dove vengono a contatto i suddetti turisti con
gli abitanti veri di Parigi, che raramente sono reperibili in
superficie se non in veste di commesse di negozio, di impiegato di
agenzia viaggi, di museo o altra attività che comporti un rapporto
con le flotte turistiche. I parigini vivono con un certo distacco la
loro “pariginità”, sembrano alieni alle attrattive ed alle
bellezze del patrimonio culturale che sfreccia sopra le loro teste, i
loro occhi sembrano trattare i turisti come suppellettili che non
danno sufficiente risalto ad un salotto di vecchio stile, ma comunque
ancora alla moda. Non sembrano tristi, né rassegnati a convivere con
potenziali invasori che, per numero e peso economico, potrebbero
fregiarsi al loro pari del titolo di “parigini”, ma fanno
chiaramente trasparire dai loro atteggiamenti distaccati, a tratti
affascinanti e a volte un po' altezzosi, che la Parigi di cui sono in
cerca i turisti, nulla ha a che fare con la Parigi di cui loro si
sentono interpreti. Nei labirintici meandri del sottosuolo, solcato
da convogli senza tempo, la realtà della Parigi “autentica” si
confronta col sogno della Parigi “turistica”, e
contemporaneamente il sogno dei parigini “autentici” sfida la
realtà monumentale della Parigi “turistica”. Un naufrago, quale
io sono, non appartiene né al sogno né alla realtà che turisti e
parigini si contendono; ma io devo scegliere la mia realtà per
trovare la rotta che forse ho solo sognato in quel bar di provincia,
che ora mi sembra più lontano che mai. Anche la realtà davanti ai
miei occhi sembra sempre più lontana, inafferrabile, indecifrabile.
Questa commistione di sogno e realtà offusca in me il senso del
tempo e delle cose. O forse è questo mezzo di trasporto sotterraneo
che ha trascinato sotto il livello della superficie, assieme a me,
anche il mio animo. Disorientato tra sogno e realtà, stento a
trovare l'istinto che avevo seguito all'inizio del mio viaggio. Devo
assolutamente risalire in superficie. Perso tra questi pensieri di
sconforto, non mi sono accorto che il vagone del métro è stato
abbandonato dai turisti, e si sta dirigendo in una zona periferica.
Una signora, seduta di fronte a me, deve aver notato le vicissitudini
pensatorie del naufrago suo occasionale dirimpettaio. Mi guarda con
un mezzo sorriso, tra il divertito e il compassionevole. Forse pensa
che, assopito nei miei pensieri, abbia dimenticato di scendere
qualche fermata prima. Però è insolito che qualcuno noti le mie
evoluzioni cervellotiche, specie in un posto dove ognuno tende a non
occuparsi troppo degli atteggiamenti altrui, preferendo badare ai
fatti propri. La signora indossa un tailleur grigio chiaro di stoffa
leggera, molto elegante. Corporatura snella, viso leggermente
affilato. Capelli castani lisci, raccolti sulla nuca, trucco leggero
attorno agli occhi dello stesso colore del crine, che risaltano,
grandi, sopra zigomi appena un po' sporgenti. Naso lievemente
appuntito, ideale vertice di un triangolo la cui base è formata
dall'onda delle carnose labbra, sulle quali il poco rossetto carminio
non deve affaticarsi troppo per far brillare quel mezzo sorriso, che
invoglia chi lo guarda ad immaginarne anche l'altra metà.
Un'artistica fossetta scava il mento stretto, donando un tocco di
fascino parigino al tutto, lasciando anacronistico ogni eventuale
interrogativo sull'età.
Le abbozzo, di rimando, un mio mezzo
sorriso, nel tentativo di confermarle quel che suppongo abbia
pensato, evitando di rivelare il naufragio che è in corso in me.
Rapidamente il suo sguardo devia verso l'esterno del vagone: è la
sua fermata. Mentre ricompone il suo mezzo sorriso, la signora si
prepara a scendere, non tralasciando di riporre nei miei occhi un suo
ultimo sguardo, stavolta più diretto e serio, quasi a segnalarmi che
quella fermata potrebbe essere anche la mia.
In effetti, riflettendoci e
naufragandoci su, a questo punto quale potrebbe non essere la mia
fermata?
La scritta dice Belleville, località
di Parigi decentrata rispetto alla zona turistica, ammeso che a
Parigi vi siano zone non turistiche. La signora si avvia con passo
elegante e sicuro verso la porta scorrevole dell'uscita e i
passeggeri rimasti sul vagone, quasi avessero udito un richiamo, si
alzano all'unisono accodandosi a lei, quasi meccanicamente, come per
seguire l'hostess che li conduce all'imbarco sull'aereo. Incuriosito
da questa inaspettata scena mi accodo anch'io, ultimo della fila.
L'hostess scende dal convoglio e si dirige svelta verso la scalinata
che porta alla superficie facendo da capofila anche ai passeggeri
scesi dagli altri vagoni, unendoli in una specie di serpentone umano
che sale all'aria aperta, mentre il serpentone sotterraneo sbuffa
chiudendo le porte, e striscia velocemente sferragliando verso le
successive stazioni del suo antico tragitto. In coda al rettile umano
salgo gli ultimi scalini, e mentre i tiepidi raggi del sole
primaverile sciolgono le squame di quel serpentone, disperdendolo,
scorgo da lontano la sinuosa sagoma dell'hostess entrare dentro la
porta di una vetrina di un'agenzia viaggi: “adieu, ma belle dame!”
penso rassegnato.
A Belleville oggi è giorno di mercato,
e sotto i palazzi immortali di una Parigi stile “belle époque”
scorre impetuoso un fiume di bancarelle e di gente multicolore, in
stile “nouvelle époque”.
L'aria di un aprile generoso di raggi
solari si unisce al tutto, diffondendo caldi effluvi speziati dalle
origini più disparate: africana, orientale, caraibica, con qualche
profumo tipicamente mediterraneo a fare da sottofondo ad una sinfonia
di aromi che risuona festosa, senza bisogno di direttore d'orchestra.
La stagione primaverile non esita neppure a far risaltare i colori,
sgargianti e festosi nelle etniche vesti di corpulente donne africane
che si aggirano tra i banchi della frutta e della verdura, scegliendo
con antica perizia i pezzi più intonati ai colori dei tessuti che
indossano, eredità della loro terra lontana. Persino il grigio delle
gonne delle signore indigene sembra splendere al riflesso verde
smeraldo delle foglie di lattuga esposte dagli ortolani. Le voci si
propagano libere nell'aria tiepida, parlano tutte le lingue e
nessuna, raccontano in arabo storie di maghrebini ormai francesi,
parlano in francese di europei di pelle scura importati da un Senegal
per loro ormai dimenticato. Suonano come tanti mantra che si
intrecciano a formare un rumore solo, un rumore indecifrabile, ma che
ha in se' qualcosa di magico. Una magia che mi avvolge, mentre
lentamente cammino tra bancarelle e folla, e confonde sempre di più
realtà e sogno. Finchè giungo a non distinguerli più del tutto,
nel preciso momento in cui, tra una bancarella di frutta tropicale e
una di stoffe ivoriane, improvvisa come un temporale ma piacevole
come una carezza, mi si para davanti lei: l'hostess che avevo
incontrato in métro, nonché capofila del serpentone umano. Tiene
tra le mani un plico di lucidi volantini pubblicitari plastificati e
sul viso uno sguardo luminoso e caldo come il sole di primavera, il
suo sorriso non lo so descrivere ma mi lascia piacevolmente
frastornato. Mentre ricevo senza accorgermene il suo messaggio
pubblicitario, senza riuscire a ricambiare con un mio messaggio
qualsiasi la vedo passarmi oltre, con la sinuosa falcata che la
contraddistingue, mentre un altro serpentone umano vedo formarsi
dietro i suoi passi, facendola di nuovo sparire dalla mia vista.
Senza accorgermi faccio scivolare dalle dita il volantino che si
perde a terra. Alcuni istanti senza pensieri mi scombinano la mente;
ormai non so più se davvero ho assistito a quella scena o se l'ho
solo immaginata. Il mio dubbio viene subito risolto: si alza un
improvviso vortice di vento, impetuoso quanto impertinente; si
sollevano polvere e cartacce da terra e si mettono a svolazzare, e
mentre mi rimetto a camminare una di queste cartacce mi si spiaccica
in piena faccia. Lo riconosco, è il volantino che la
serpentessa-hostess mi aveva consegnato e che mi era sfuggito di
mano. Il vento, evidentemente, vuole che lo legga. C'è la foto di un
enorme specchio in una cornice in stile seicentesco. E' scritto in
francese, ma insolitamente c'è anche la traduzione in italiano: “Le
Miroir – Il locale più impensabile del mondo. Nulla di quel che
vedrai l'avresti mai pensato. Vedrai ciò che hai sempre pensato ma
che non avresti mai immaginato. Le Miroir ti porta sulla rotta
giusta. Vienici a trovare: 19, boulevard Cristophe Colombo (dietro il
molo 26 dov'è attraccata la scialuppa) Boulogne sur Mer”. A parte
il misterioso riferimento sulla scialuppa attraccata al molo 26, che
non vedo come possa orientare meglio il potenziale avventore, credo
che ci siano cose interessanti che mi aspettano a Boulogne sur Mer.
(Fine terzo episodio)
Marco Bertelli
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